Senatore Cappelli, Timilia, Perciasacchi, Gentil Rosso, Verna: questi sono solo alcuni dei nomi delle più note varietà di “grani antichi” che di recente si sono riaffacciati sul panorama della panificazione e della molitura.
Intervista di Misura al Dott. Andrea Del Seppia
Approfondiamo l’argomento con il nostro nutrizionista, Dott. Andrea Del Seppia.
Dott. Del Seppia approfondiamo l’argomento dei cereali antichi…
Il termine “grani antichi” viene utilizzato per distinguerli da quelli più moderni, i quali sono stati ottenuti tramite l’ausilio di tecniche di selezione artificiale, utilizzate a partire dai primi decenni del Novecento per cercare di ottenere delle varietà di colture con una resa più alta. Da quando esiste l’agricoltura, l’uomo ha sempre operato una selezione sulle sue coltivazioni per scegliere quelle migliori, ma tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, abbiamo assistito a un’intensificazione dell’utilizzo di ibridazioni e d’incroci genetici che hanno dato origine, dopo decenni di sperimentazioni, al grano tenero e al grano duro che consumiamo oggi. I grani antichi – anche se non esiste una definizione agronomica ben delineata – sono quelli che venivano consumati prima che venissero operate queste selezioni in maniera massiccia.
Quali sono le loro caratteristiche e perché dovremmo introdurli nella nostra alimentazione?
Questi cereali possiedono un fusto più alto rispetto al frumento moderno: un fusto più lungo li sottopone maggiormente al rischio di essere danneggiati dalle intemperie e ne determina un rendimento inferiore. Sebbene abbiano un costo più elevato dovuto alla loro minore resa, le varietà antiche esprimono una maggiore biodiversità, al contrario dei grani moderni che sono molto standardizzati nelle loro caratteristiche e nel loro sapore. È proprio questo il primo motivo per cui sarebbe importante introdurre nella propria alimentazione qualche derivato ottenuto da farine di frumenti diversi da quelli più diffusi: la varietà delle scelte alimentari è alla base di un’alimentazione equilibrata e preservare la biodiversità è vantaggioso non solo per noi ma anche per l’ambiente che ci ospita.
Questi cereali potrebbero essere più adatti dei moderni a crescere in determinate condizioni climatiche, anche in luoghi in cui, per motivi pratici, l’agricoltura intensiva e meccanizzata non è attuabile. Inoltre, comprare grani tipici della propria zona aiuta a ridurre la filiera alimentare: una filiera corta, con pochi passaggi tra il produttore e il consumatore, determina un minor impatto ambientale; per di più, le modalità di coltivazione non intensive comportano un minore inquinamento a carico del suolo e delle falde acquifere. I grani antichi non crescono in colture intensive e quindi non implicano l’utilizzo altrettanto “intensivo” (seppur a norma di legge) di concimi azotati e di pesticidi: di conseguenza, sostituire qualche volta i farinacei di grano moderno con quelli di grani più antichi aiuta a ridurre l’introito alimentare di xenobiotici, ovvero di sostanze estranee rispetto a quelle che normalmente compongono gli alimenti.
E dal punto di vista nutrizionale?
Dal punto di vista nutrizionale le vecchie varietà sembrerebbero essere più digeribili e meno infiammatorie rispetto a quelle più diffuse, in particolare nel caso di soggetti più sensibili a livello intestinale; ad ogni modo, sono necessari studi scientifici più solidi per poterlo affermare con maggiore certezza. Per quanto concerne il contenuto di glutine, i risultati nella letteratura scientifica sono controversi: quello che sappiamo è che contengono questa proteina in quantità paragonabili a quelle dei colleghi di selezione più recente, ma la rete glutinica è qualitativamente diversa rispetto a quella che si forma lavorando le farine moderne.
Quali sono, nello specifico, i cereali antichi?
Il grano coltivato di più antica origine è rappresentato dal farro monococco (Triticum monococcum): consumato in Medio Oriente circa diecimila anni fa, è stato il primo della famiglia delle Poaceae (Graminacee) ad essere oggetto di domesticazione: non si tratta, quindi, di una specie selvatica. Si caratterizza per spighe piccole contenenti un unico chicco; in tempi più moderni il suo ruolo come fonte alimentare è diventato sempre più marginale per lasciare spazio ad altri cereali. Uno di questi è il farro dicocco (i), che possiede una spiga con due chicchi.
Anche il dicocco è stato una delle prime Poaceae di interesse agricolo ed è tutt’ora consumato (è il farro comunemente detto, la cui farina integrale dà origine a prodotti con un ottimo contenuto di fibra). In seguito, il genoma del farro dicocco si è fuso con quello di un’altra graminacea selvatica e ha originato il farro spelta (Triticum spelta), molto simile all’attuale grano tenero (Triticum aestivum), il quale è nato, invece, dall’ibridazione di una tipologia di grano duro (Triticum durum) con un’altra specie selvatica. Attualmente, dal grano duro si ricavano delle semole usate, ad esempio, nella produzione di pasta alimentare e di alcuni prodotti della panificazione (il Cappelli è proprio una varietà di grano duro), mentre la farina di grano tenero si usa prevalentemente per i comuni prodotti da forno.
In conclusione, le varietà che consumiamo sono state scelte per far fronte alle problematiche della fame o della mancata autosufficienza; ai tempi attuali, in cui è più saliente occuparsi della qualità della propria alimentazione (dacché non abbiamo problemi a reperire il cibo), può essere utile introdurre alcune varietà più antiche e “alternative”, premiando il lavoro di piccoli produttori che prestano attenzione all’intero processo di lavorazione. Non è, quindi, solo una questione di materia prima ma anche, ad esempio, di modalità di macinatura della farina e di temperatura di essicazione della pasta di semola. Usare grani diversi significa avere la possibilità di conferire differenti profumi ai nostri impasti: si tratta di peculiarità organolettiche che possono contraddistinguere molti alimenti alla base della nostra alimentazione.
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